“Il gattopardo”

Preceduto da un Bendicò eccitatissimo, discese la breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso come era questo fra tre mura e un lato della villa, la reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai monticciuoli paralleli delimitanti i canaletti d’irrigazione e che sembravano tumuli di smilzi giganti. Sull’argilla rossiccia le piante crescevano in fitto disordine: i fiori spuntavano dove Dio voleva e siepi di mortella sembravano disposte per impedire, più che per dirigere i passi. Nel fondo una Flora chiazzata di lichene giallo-nero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; dai lati due panche sostenevano cuscini ravoltolati e trapunti, anch’essi di marmo grigio; e in un angolo l’oro di un albero di gaggìa intrometteva la propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia. Ma il giardino, costretto e macerato fra le sue barriere, da profumi untuosi, carnali e lievemente putridi, come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello protocollare delle rose ed a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche il profumo della menta misto a quello infantile della gaggía ed a quello confetturiero della mortella; e da oltre il muro l’agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zagare. Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa: ma l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi, erano degenerate; eccitate prima, e rinfrollite poi dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un aroma denso quasi turpe, che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare.  Il Principe se ne pose sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte…

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo

“Il giardino dei Finzi-Contini”

Quando la larghezza dei viali e dei sentieri lo consentiva, pedalavamo appaiati. Spesso io guidavo con una mano sola, tenendo l’altra appoggiata al manubrio della sua bicicletta. Nel mentre parlavamo: di alberi, soprattutto, almeno da principio.
In materia non sapevo nulla, o quasi, e la cosa non finiva mai di meravigliare Micòl. Mi guardava come se fossi un mostro.
“Possibile che tu sia così ignorante?”, esclamava. “L’avrai pure studiata, al liceo, un po’ di botanica!”
“Sentiamo”, chiedeva poi, già preparandosi a inarcare le sopracciglia dinanzi a qualche nuova enormità. “Potrei sapere, per favore, che specie di albero Lei pensa che sia, quello laggiù?”
Poteva riferirsi a tutto: a onesti olmi e tigli nostrani, come a rarissime piante esotiche, africane, asiatiche, americane, che soltanto uno specialista sarebbe stato capace di identificare: giacché c’era di tutto, al Barchetto del Duca, proprio di tutto. Io, comunque, rispondevo sempre a vanvera: un po’ perché non sapevo sul serio distinguere un olmo da un tiglio, e un po’, anche, perché m’ero accorto che niente le faceva tanto piacere come sentirmi sbagliare.
Le sembrava assurdo, a lei, che esistesse al mondo uno come me, il quale non nutrisse per gli alberi, “i grandi, i quieti, i forti, i pensierosi”, gli stessi suoi sentimenti di appassionata ammirazione. Come facevo a non capire? Come tiravo avanti a vivere, senza sentire? C’era in fondo alla radura del tennis, per esempio, ad ovest rispetto al campo, un gruppo di sette esili, altissime Washingtoniae graciles, o palme del deserto, isolate nei confronti della retrostante vegetazione (scuri alberi di grosso fusto, da foresta europea: querce, lecci, platani, ippocastani), e con attorno, anzi, un bel tratto di prato. Ebbene, ogni qualvolta, in bicicletta, passavamo dalle loro parti, Micòl aveva per il gruppo solitario delle Washingtoniae sempre nuove parole di tenerezza.
“Ecco là i miei sette vecchioni”, poteva dire. “Guarda che barbe venerande, hanno!”
Sul serio – insisteva -: non parevano, anche a me, sette eremiti della Tebaide, asciugati dal sole e dai digiuni? Quanta eleganza, quanta “santità”, in quei loro tronchi bruni, secchi, curvi, scagliosi! Parevano altrettanti San Giovanni Battista, veramente, nutriti solo di locuste.

Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini

“Dei giardini”

Dio onnipotente per primo piantò un giardino. E infatti è il più puro degli umani piaceri. È il più grande ristoro per lo spirito dell’uomo; senza del quale costruzioni e palazzi sono soltanto rozze opere manuali; e si vedrà sempre che, quando i tempi diventano civili ed eleganti, gli uomini pervengono a costruire sontuosamente, prima che a piantar giardini con gusto; come se il giardinaggio fosse più grande perfezione.

Francis Bacon, Dei giardini

“Un giardino è”

Un giardino è una cosa da cui dobbiamo essere stati cacciati; altrimenti, come avremmo potuto abbandonarlo?

Rudolf Borchardt

“I parchi”

Incontenibili emergono i parchi / Dal lento, morbido sfacelo; / carichi di cieli, di forze / che si tramandano e resistono, / per espandersi sulla chiara erba / delle aiuole e ritrarsi / sempre con il medesimo / sovrano fasto che sembra proteggerli // (…) Blandamente rapito / a destra e a sinistra dai viali, / seguendo un qualche cenno / che invita a continuare, / entri improvvisamente / nella concordia ombrosa / di una vasca d’acqua / con quattro panche in pietra; / in un tempo isolato / che scorre per sé solo…

Rainer Maria Rilke, I parchi